Non da soli

L’epidemia di Coronavirus rappresenta un momento eccezionale della nostra storia recente. La caratteristica precipua di questa malattia è quella dell’isolamento fisico, della detenzione a cui nel mondo l’umanità è costretta per sfuggire un contagio per il quale allo stato attuale non c’è una cura. La figura che si staglia da tutto questo è l’angoscia della solitudine esistenziale.

Le limitazioni alla mobilità e l’obbligo prolungato di distanziamento sociale hanno modificato profondamente le dinamiche del vivere quotidiano. Le interazioni mediate dalla tecnologia hanno prodotto trasformazioni significative del paesaggio sociale, ridefinendo le nostre modalità di relazione.

Le implicazioni sociali, culturali e tecnologiche di questo evento hanno dato corpo ad un patrimonio simbolico che è già diventato memoria collettiva. Mediante i personal media digitali ha preso forma un vasto immaginario della crisi da Coronavirus che ognuno ha contribuito a costruire. L’illusione che tutto quello che stiamo vivendo lo possiamo  condividere con tutti, non porta veramente ad un gran sollievo, perché i social media sono già strumenti che creano illusione, e gli esseri umani, a livello ancestrale, hanno bisogno di un gruppo di riferimento a cui appoggiarsi, con cui poter condividere una fisicità ed una reale vicinanza.

Quello attuale è un mondo di isolati nel quale gli abbracci, i baci, le strette di mano, le passeggiate, gli incontri sono messi al bando perché il virus coglie qualsiasi occasione per diffondersi e per colpire.

Il cambiamento imposto dal coronavirus porta ad una sofferenza difficile da sopportare, perché tutto quello che abbiamo considerato progresso non sa proteggerci da un microscopico assemblamento genetico. Ci troviamo di fronte all’impossibilità di fare qualcosa, ci sentiamo precari e possiamo solo subire, sperando che ancora una volta la tecnica ci aiuti: quando un nostro caro sta male lo affidiamo all’ospedale, e da lì non abbiamo più alcun contatto.

La sospensione forzata della nostra routine lavorativa ci trova impreparati: non sappiamo più cosa fare. Avevamo affidato la nostra identità al ruolo lavorativo. Ci troviamo da soli con noi stessi, degli sconosciuti che non sanno più chi sono nel profondo quando vengono a mancare gli schemi imposti dalla società.

L’isolamento e la conseguente crisi economica porterà un altro carico di morti, derivanti da un’ondata mondiale di «suicidi da coronavirus». L’isolamento aumenterà i disagi mentali nelle persone con una fragilità pregressa, perché acuirà la sintomatologia. Chi soffre ha bisogno di serenità, di persone che lo aiutino e gli stiano vicino e non di notizie ansiogene ascoltate per mesi da ogni telegiornale. Anche chi non soffre di alcuna problematica clinica dovrà fare i conti con un futuro incerto, senza alcuna sicurezza del passato, e bisognerà trovare letteralmente dei modi per sopravvivere, con un carico di disperazione, maggiore nelle sacche della popolazione a più alto rischio sociale, che potrà portare alcuni al suicidio come unica via di fuga. Altra possibilità per aggirare la disperazione sarà il consumo di sostanza stupefacenti, già in aumento esponenziale.

Cosa ci rimane per rifuggire all’angoscia della solitudine esistenziale? La speranza, ma non che tutto torni come prima, perché il mondo pre-coronavirus non funzionava, ma che questo disastro porti ad una nuova forma di intenti, che realizzi una comunità fondata su principi di uguaglianza e solidarietà.

Se senti il bisogno di un supporto psicologico non esitare a contattarmi: aspettare non è mai una buona idea. Compila il form e fissiamo un appuntamento
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