Invidia: una passione triste

Max Beerbohm: “L’invidia che lo stupido prova verso gli uomini brillanti è sempre alleviata dal sospetto che costoro faranno una brutta fine”.

Conosciuta sin dalle origini dell’umanità, tanto che in tutte le lingue esiste un termine per indicarla, l’invidia è la percezione dolorosa delle differenze, con un’attenzione agli aspetti di sé sentiti svantaggiosi e miseri e l’attesa del male altrui.

Nell’iconografia tradizionale, l’invidia è legata al potere dello sguardo, cosa che si ripropone in alcuni studi moderni della psicosomatica sulle allergie oculari, come nella tradizione della superstizione e dei rituali contro il malocchio. Dante, ad esempio, pone gli invidiosi nel secondo girone del Purgatorio, con la pena di occhi cuciti, per cui non solo sono impossibilitati a vedere, ma devono per questo sorreggersi reciprocamente. A ben vedere, però, l’invidia è legata alla cecità non in quanto punizione della colpa ma come condizione esistenziale.

È anche azione, con la maldicenza e la congiura, e viene descritta come un affetto, un sentimento, una passione, e in quanto tale, secondo Tommaso d’Aquino, sarebbe legata più alla tristezza che al piacere. Sembra, infatti, l’unico tra i sette vizi capitali a non procurare alcuna soddisfazione ma la sua sofferenza viene considerata giusta, una sorta di contrappasso immediato per un sentire tanto meschino. In altri termini, è difficile identificarsi con l’invidioso e provare per lui compassione. Sottoposta da sempre alla stigmatizzazione morale che la contrappone in modo diretto alla carità, e alla condanna sociale oltre che religiosa, l’invidia è un sentimento solitario, tenuto nascosto, difficile da ammettere anche a se stessi in quanto parlarne apertamente significa rivelare la rabbia che nasce dal confronto svantaggioso con la presunta grandezza altrui, quindi anche confessare la propria inferiorità. Proprio la sua natura la rende tenacemente opposta all’indagine: esistono in effetti pochi studi sull’argomento ed è comunque difficile aggirare fenomeni come la desiderabilità sociale.

Si può forse pensare che il silenzio che la circonda sia collegato al fatto che l’invidia coinvolge le radici della propria identità? In tal senso, l’invidia potrebbe essere una sorta di difesa che permette a chi è incapace di valorizzare se stesso una salvaguardia di sé nella demolizione dell’altro.

In psicoanalisi, l’invidia fa la sua comparsa in letteratura fin dall’inizio: nei testi di Freud, infatti, ricorrono riferimenti frequenti quanto generici, principalmente alla sua veste emulativa, radicata nelle relazioni familiari, in particolare nei rapporti tra fratelli (a parte che la morte stessa è entrata nel mondo per invidia del diavolo, l’omicidio di Abele è il primo esempio di invidia tra pari) e tra generazioni, e nel quadro dell’organizzazione sociale. Ad ogni modo, l’asse principale del discorso freudiano si concentra sulla formulazione del concetto più tecnico di “invidia del pene”, che gli permette di rendere più evidente la distinzione con la gelosia (mentre la bambina prova invidia per il fallo, perché non ce l’ha, il maschio ne è geloso, perché ha paura di perderlo).

È però il lavoro di Melanie Klein a fornire all’invidia un posto di primo piano all’interno della teorizzazione psicanalitica: per quest’autrice, essa ha una fonte endogena, costituzionale, in altri termini sarebbe un affetto primario non legato tanto a circostanze esterne (frustrazione per cure parentali inadeguate) quanto all’avidità del lattante che per sua natura ricerca un soddisfacimento illimitato (la frustrazione sarebbe, dunque, ineludibile). Questo però non ne permetterebbe l’elaborazione e ne considera soltanto l’aspetto distruttivo. Ancora, essendo riconducibile al primo rapporto esclusivo con la madre, l’invidia implicherebbe un rapporto con una sola persona, a differenza della gelosia, che si inserisce nelle relazioni triangolari.

Prima di proseguire oltre, è necessario riflettere brevemente sul rapporto tra invidia e gelosia.

Il termine gelosia viene dal greco zelo, che indica un impegno, mentre l’origine latina di invidia rimanda al guardare in modo maligno e al non guardare affatto.

Tradizionalmente, poiché la sua prima accezione è per così dire “romantica”, la gelosia è socialmente più accettabile dell’invidia, che invece viene accettata solo quando, spogliata del suo contenuto aggressivo, si trasforma in ammirazione o emulazione. Al di là delle specificità che può rintracciare in modo diverso questo o quell’autore, la grande differenza tra le due si pone, come già detto, nel fatto che la natura arcaica dell’invidia la ricondurrebbe all’interno della sola relazione duale mentre la gelosia coinvolgerebbe sempre anche un terzo. Dunque, l’invidia riguarda un attributo, la gelosia, invece, implica una relazione: l’invidia è una specie di risentimento verso qualcosa che qualcun altro ha, la gelosia invece è la paura che qualcuno porti via ciò che già si possiede.

Sembra che l’invidia sia anche collegata all’idealizzazione: l’oggetto invidiato, infatti, possiede degli aspetti che la persona considera ideali e potenti e si arrabbia perché l’altro può goderne liberamente. È quindi una risposta più alla gratificazione che alla frustrazione. L’invidioso soffre per l’esistenza stessa del rivale perché, nella sua indipendenza e autosufficienza, può soddisfare i propri desideri ed escluderne il soggetto. In definitiva, allora, la violenza invidiosa è un modo per sopravvivere. La conseguenza, però, è un attacco alla possibilità di creare relazioni, di provare fiducia e gratitudine. In tal senso, la distruzione dell’altro comporta inevitabilmente anche la perdita dell’immagine grandiosa e affascinante che è stata proiettata su di lui. L’invidioso in definitiva attacca se stesso, e l’altro costituisce solamente il suo doppio, la sua immagine speculare. Questo rende più facilmente comprensibile perché l’invidia non è mai riferita a un termine generico e lontano ma al contrario è “sempre molto specifica”.

Una ineguaglianza profonda e palese paradossalmente attiva meno l’invidia perché questa è rivolta a coloro che fanno pensare “avrei potuto essere al suo posto” e la cui condizione è solo leggermente migliore. Secondo i sociologi, il presupposto del “minimo di possibilità comuni” fa sì che non si invidi chiunque, ma solo coloro che presentano una comunanza di desideri e di capacità: l’invidia nasce in condizioni di prossimità sociale, come già notato, nel rapporto tra fratelli, nella rivalità fra pari. È all’erba del vicino che si guarda. In quest’ottica potrebbe essere considerata paradossalmente una forza democratica: in un mondo di eguali, ci si chiede perché l’uno debba essere più ricco o felice dell’altro. Non è propriamente così per diversi motivi: in un mondo competitivo, l’invidia cresce in proporzione all’esibizione esagerata; soprattutto, l’invidioso non cerca di migliorare la propria posizione ma di abbassare il livello generale, tende ad un appiattimento che non permette di crescere nella differenza. Può sembrare ingiusto alla Ragione, ma poiché la Natura, cioè il caso, determina l’ineguaglianza nella distribuzione delle capacità produttive individuali (“agli uguali le cose non vadano in modo uguale”, ricorda Nietzsche), non si può eliminare l’opposizione libertà/uguaglianza, per cui la stessa invidia sarebbe insuperabile. Questa interpretazione nasce da una visione dell’altro non in termini di mediazione sociale positiva, ma di impossibilità di piena realizzazione individuale: “Ancora una volta perciò un falso concetto di eguaglianza fondata non sulla realizzazione dell’individuo sociale, ma sulla sublimazione di una politica della solitudine…”. L’invidia difficilmente trascende se stessa, diventando motore genetico di parità sociale perché nella sua miopia non va oltre la cerchia dei simili. L’invidia non può, quindi, essere amore per la giustizia perché è espressione di sentimenti più personali, mentre la giustizia richiede obiettività e imparzialità.

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